I VOLONTARI DELLA PAPA GIOVANNI XXIII A FIANCO DI UNA COMUNITA’ DI PACE NELL’INFERNO ARMATO DELLA COLOMBIA

“Il nostro primo problema è continuare ad esistere”. Intervista con Gildardo Tuberquia, membro della Comunità di Pace di San Josè de Apartadò, che da 18 anni rappresenta un luogo di accoglienza, lavoro e solidarietà per tutte le vittime degli sfollamenti

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Un contesto difficilissimo, segnato da una guerra intestina che da decenni insanguina il paese.
Parliamo della Colombia, dove ormai dagli anni 60 imperversa uno scontro violentissimo tra gruppi armati rivoluzionari (il più noto è quello delle Farc), truppe governative e corpi paramilitari per lo più legati ai cartelli del narcotraffico. In tutto questo le vittime principali sono i contadini e le loro famiglie: uccisi, deportati ed espropriati delle loro terre. Sono almeno 6 milioni gli sfollati accertati, cifra che colloca la Colombia seconda solo alla Siria.

In questo contesto nasce nel 1997 una comunità di pace, neutrale, che dichiara la sua equidistanza da ogni forza armata. Si tratta della Comunità di Pace di San Josè de Apartadò. L'obiettivo primario della Comunità è stato quello di sopravvivere alle violenze, alle minacce e ai massacri perpetrati da parte dei gruppi armati presenti sul territorio, non rinunciando a esigere verità e giustizia rispetto ai crimini perpetrati. La Comunità vive di un modello di vita basato sulla solidarietà, sul recupero del territorio e sul lavoro comunitario secondo una logica di bene a servizio di tutte le persone coinvolte.

Grazie al sostegno ed alla presenza costante di organizzazioni internazionali che garantiscono in parte la sua sicurezza e al lavoro comunitario della terra che gli garantisce una certa autosufficienza, la Comunità è riuscita a sopravvivere fino ad oggi. Con la sua instancabile azione di denuncia di tutte le violazioni dei diritti umani di cui viene a conoscenza, è riuscita a ottenere un abbassamento della violenza diretta, una maggior mobilità sul territorio per i contadini e un accesso facilitato agli organismi di denuncia nazionali e internazionale. I volontari di Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace dell'Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII - presenza nonviolenta permanente attiva in diversi paesi segnati da conflitti - accompagnano la Comunità di Pace dal 2009.

Lo scorso 25 giugno una delegazione dell’associazione si è recata a San Marino dove è stata ricevuta in Udienza dai Capitani Reggenti, contestualmente ad un incontro con il Segretario Pasquale Valentini, che attraverso la Segreteria agli Esteri già da anni sostiene il progetto. Prima degli appuntamenti istituzionali la delegazione ha incontrato i vertici dell'Ente Cassa di Faetano, che a sua volta sostiene da tempo questa importante operazione umanitaria.
Nella delegazione guidata da Antonio De Filippis, referente di Operazione Colomba, alcuni volontari ed un ospite speciale: Gildardo Tuberquia, uno dei rappresentanti ufficiali delle Comunità di San Josè.
Insieme a lui abbiamo fatto il punto sulla loro situazione.

Come si colloca la Comunità nel contesto della Colombia oggi?
La nostra comunità è nata e continua ad esistere come luogo di pace, un luogo in cui i civili possono rifugiarsi, dove non entrano armi, dove non c’è violenza e non si scambiano informazioni con alcun gruppo armato. Godiamo di un grande accreditamento internazionale ma siamo sia nelle mire sia del governo - che ci aggredisce e diffama considerandoci legati ai terroristi – sia dei gruppi rivoluzionari che ci considerano traditori.

In quale zona siete situati?
A nord est, a cavallo di due regioni, Antioquia e Cordoba, e molto vicini al confine con Panama, una zona che purtroppo interessa a molti attori che detengono interessi economici leciti e illeciti, è un corridoio strategico. Inoltre è una zona di terre molto fertili e ricche di risorse, cosa che fa gola a molti.

Nel 2005 succede un fatto cruciale.
Il 21 febbraio 2005 c'è stato un massacro, in cui venne ucciso Louis Guerra, leader della Comunità di Pace, che stava trattando con il governo perché mantenesse le indicazioni contenute nella sentenza della Corte Interamericana per i diritti dell’uomo.
In tutti questi anni abbiamo sempre chiesto al governo che ci aiutasse a tornare nelle nostre terre, perché ciò significa tornare all’educazione, alle scuole, ai centri di sanità, all’alimentazione: queste persone se non lavorano non hanno da mangiare. La Corte Interamericana ha fatto pressione sul governo colombiano perché rispettasse la Comunità e desse seguito alle sue richieste, ma questo non è mai stato fatto.

Come riuscite ad affrontare una situazione così drammatica?
La nostra risposta è stata ed è sempre comunitaria, di solidarietà, pacifica e sempre attenta a non far maturare uno spirito di vendetta.
Purtroppo dopo il massacro del 2005 abbiamo capito che ogni tentativo di cercare protezione nel governo era inutile ed abbiamo deciso di interrompere le relazioni, dettando quattro punti su cui si eventualmente riaprire un dialogo:
1 Ritiro della base militare creata a San Jose dopo il massacro
2 Il rispetto delle zone umanitarie e neutrali
3 Ritrattazione delle accuse contro la Comunità di pace
4 L’istituzione di una commissione di verità e giustizia che indaghi sulle violazioni dei diritti umani perpetrati contro la comunità.

Ci sono altre comunità come voi? Riuscite ad unirvi e a collaborare?
Nel tra il ‘96 e il ‘98, anni dell’apice delle violenze, siamo stati la prima esperienza comunitaria a nascere in quella regione, ma è stato molto difficile.
Poi ne sono nate altre, perché nessuno individualmente poteva opporre alcuna resistenza, tutti erano sfollati e non avevano niente. Attualmente c’è uno scambio tra diverse comunità, condividiamo esperienze e informazioni ma è complicato perché la Colombia è molto grande, gli spostamenti sono molto difficili e perdere un giornata di lavoro è grave. In certi casi poi l’isolamento è un vero e proprio obiettivo dell’esercito, voluto per tenere lontane queste comunità dai civili della zona.

Oltre alla vostra attività agricola avete qualche altro sostegno economico?
La rete di rapporti internazionali che abbiamo ci ha messo in contatto con realtà che ci aiutano. Per esempio siamo gemellati con la città di Burgos in Spagna, che ci ha dato i fondi costruire le scuole, il comedor - il ristorante comunitario dove pranzano i bambini delle scuole e anche gli anziani e le donne incinta - e per formare i professori della comunità. Inoltre cerchiamo di vendere i nostri prodotti all’estero attraverso reti di vendita alternativa.
Ma l’appoggio fondamentale è quello politico perché è inutile cercare risorse per costruire cose quando il governo ci vuole distruggere. Il nostro primo problema è continuare ad esistere.

Quale supporto reale offre Operazione Colomba alla vostra realtà?
La presenza dei volontari di Operazione Colomba e di altri Gruppi insieme a loro ci ha dato forza, ci ha fatto capire che non siamo soli. Inoltre loro vivono come noi e con noi, e quindi si sono trasformati in testimoni diretti, sono osservatori esterni molto importanti.

** Intervista realizzata dall'Ente Cassa di Faetano e già pubblicata sul mensile Sorpresa! di luglio 2015.